Yekatit 12 | Febbraio 19. Storie di deportati, di confinati e dei loro figli.

Terzo post, di quattro, in preparazione di Yekatit 12, il 19 febbraio del calendario gregoriano, giorno che abbiamo proposto per “agire la memoria” in ricordo dei crimini del colonialismo italiano.

Come abbiamo raccontato nel primo articolo della serie, quella data segnò l’inizio del massacro di Addis Abeba, durante il quale gli italiani uccisero migliaia di etiopi residenti in città (19mila, secondo la stima dello storico Ian Campbell nel suo più recente libro sulla strage).

Due settimane più tardi, ai primi di marzo del 1937, circa 187 alti esponenti della classe dirigente etiope vengono arrestati, insieme a 8 donne e 2 bambini, trasportati in aereo a Massaua e imbarcati sul piroscafo Toscana diretto a Napoli.
All’ultimo momento, però, la nave si dirige verso l’Asinara e i prigionieri vengono confinati nella Colonia sanitaria marina.

Non è la prima volta che sudditi coloniali vengono trasferiti in Italia con la forza. Fin dal 1889, ascari somali ed eritrei avevano conosciuto le carceri militari di Portici e Gaeta, mentre nei bagni penali di Procida e Nisida furono rinchiusi gruppi consistenti di civili (20 nel primo e 30 nel secondo – entrambi indicati sulla mappa “Viva Zerai!”, con il segnaposto nero dei “luoghi d’internamento”).

Con la guerra di Libia (1911-12), la deportazione dalle Colonie era aumentata in maniera esponenziale: 1366 libici vennero confinati nelle sole isole Tremiti (e 437 morirono nel giro di un anno), 1757 furono ristretti a Favignana tra il 1912 e il 1920 (ne morirono 354), 920 finirono a Ustica (e 150 vi morirono), poi altri 1360 (sempre a Ustica), tra il giugno 1915 e il gennaio 1916, e infine 31 notabili senussiti, nel giugno 1930. Uno sparuto gruppo venne mandato sull’isola della Gorgona, nell’Arcipelago toscano, l’unica di queste “prigioni coloniali” che non si trovi nel Mezzogiorno.

I “folli criminali” e gli “alienati” della Quarta Sponda finivano nelle case dei matti di Palermo, Aversa, Barcellona Pozzo di Gotto. Le donne venivano imprigionate nel carcere femminile di Trani (che ancora oggi svolge quella funzione). I minori finivano a Noto, altri a Siracusa, nel carcere borbonico, altri ancora alla Rotonda di Tempio Pausania – tutti luoghi e notizie che trovate sulla mappa.

Nel 1915, con l’entrata in guerra dell’Italia, 2554 soldati libici, con 1780 donne e bambini, vengono trasferiti in Sicilia, a Canicattini Bagni e Floridia (vedi mappa), per paura che restando in Tripolitania possano ammutinarsi, disertare e unirsi all’esercito ottomano. Per qualche mese, sembra addirittura che il ministro della Guerra voglia spedirli sul Carso a combattere. Poi però non se ne fa nulla, e rimangono dove sono fino al giugno 1916, in una condizione non molto diversa dal confino.

E al confino si trovava, dal 16 marzo 1936, lo studente eritreo Mengistu Isahac, condannato per avere “esternati accaniti sentimenti antitaliani e antifascisti”, mentre si trovava a Roma, iscritto alla facoltà di Scienze.

Nel marzo 1937, quando il “Toscana” con i deportati etiopi approda all’Asinara, Mengistu è ancora a Ustica (andrà poi alle Tremiti, poi di nuovo a Ustica e infine a Ventotene, a motivo di varie insubordinazioni, ma soprattutto “perché, malgrado diffidato, non salutava romanamente”).

All’Asinara, il 16 aprile, arriva un altro piroscafo, il “Sardegna”, con un ulteriore carico di 87 confinati. A questo punto, la situazione diventa ingestibile, la colonia non può contenere tanta gente e le autorità decidono di smistare i gruppi: i più malleabili e tranquilli finiscono a Tivoli, a Villa Ettora e Villa Leonardi/Savi (sulla mappa), un folto gruppo di donne e bambini viene sistemato a Mercogliano (AV) nell’orfanotrofio delle suore benedettine, mentre i mariti stanno ala Palazzo Abbaziale di Loreto, proprio lì accanto (sempre sulla mappa). I più anziani si ritrovano a Torre del Greco, ma non sappiamo ancora bene in quale sede. Ventotto irriducibili (cui se ne aggiungeranno altri sette) vengono spediti a Longobucco (vedi mappa) un paese annidato tra le montagne della Sila, dove gli abitanti, per qualche tempo, non faranno uscire i bambini di casa per paura che se li mangino i cannibali.

Sull’isola sarda, a Cala Grande, rimane un piccolo gruppo, che pian piano s’ingrossa di altri arrivi, tra i quali spicca quello della principessa Romane Work (“Melagrana d’oro”), figlia maggiore dell’imperatore Hailé Selassié, con i suoi quattro figli. Il marito, Beyene Merid, governatore del Bale e comandante partigiano, è stato catturato e fucilato dai fascisti il 24 febbraio 1937. Il figlio Gideon si ammala e muore all’Asinara. Anche la salute di Romanework è presto compromessa. Un missionario della Consolata, in visita sull’isola, intercede per farla trasferire a Torino, in una struttura per orfani di proprietà dell’ordine, in via Genova, 8 (sulla mappa). Romanework morirà di tubercolosi, all’Ospedale Maggiore di Torino, il 14 ottobre 1940. E’ sepolta al cimitero monumentale, insieme a un altro figlio, Getachew, morto nel ’44. I due bambini rimasti, Merid e Samson, torneranno in Etiopia solo alla fine della guerra.

Nel frattempo, anche a Longobucco si dipana una storia di genitori e figli, ancorché meno tragica.

Tra i confinati etiopi c’è pure il degiac Mangascià Ubié, ex-ambasciatore a Roma in rappresentanza del suo paese. Mangascià si lamenta di essere finito nel gruppo dei più cattivi. Scrive subito al prefetto, in italiano, sostenendo che non ha “mai agito male”, che ad Addis Abeba ha fatto atto di sottomissione al maresciallo Badoglio, nonostante avesse ai suoi ordini un esercito di settemila uomini, “perché amavo l’Italia e in Italia mi fidavo”.

La lettera non sortisce l’effetto desiderato. Mangascià non viene trasferito. Non subito, almeno. Invece, dopo un anno, nel giugno del 1938, il prefetto chiede al Ministro degli Interni di mandarlo a Bocchigliero, un’ora di curve da Longobucco, non certo in una situazione migliore.  Infatti il trasloco non è un premio per buona condotta, al contrario. Il motivo è che il degiac avrebbe contratto relazioni con prostitute del luogo”.

Non sappiamo se l’accusa fosse fondata. Di certo c’è che nel febbraio ’39 Giuseppina Blaconà mette al mondo un bambino – subito soprannominato “u nivuriaddu” – che non può proprio essere figlio di suo marito, Vincenzo Scigliano. Giuseppina non era una prostituta: si occupava delle pulizie delle stanze e di preparare i pasti per i confinati. Il lavoro gliel’aveva trovato proprio Vincenzo, che in Etiopia c’era stato, a fare la guerra, e per questo, fin dai primi giorni, era stato incaricato di tenere i rapporti con quella gente strana, lui che ci si sapeva fare. Vincenzo comunque riconosce il figlio e gli dà il nome di suo padre, Michele Antonio. Forse lo fa per evitare guai alla moglie, visto che in Italia la legge parla chiaro: “il cittadino che intrattiene relazioni di indole coniugale con un suddito dell’Africa Orientale Italiana è punito con la reclusione da uno a cinque anni.”

Intanto, il padre naturale del bambino, Mangascià Ubié, viene spedito a Bocchigliero, e quando gli Alleati liberano la Calabria, può finalmente tornare al suo Paese.

Da lì, a guerra finita, scrive a Giuseppina, chiede notizie del figlio, vorrebbe crescerlo in Etiopia, manda anche del denaro, ma la madre non sente ragioni. Michele Antonio cresce a Longobucco, diventa carbonaio e pastore, si sposa a diciott’anni, e nei primi anni Sessanta gli nascono due figli: Mangascià Vincenzo e Giuseppina.

La sua vita cambia d’imnprovviso quando gli arriva la notizia – una lettera? un telegramma? una telefonata? – che Mangascià Ubié è morto e gli ha lasciato tutta l’eredità, perché nel frattempo ha avuto altri due figli, ma sono dei poco di buono e non meritano nulla. Michele Antonio s’infroma e pare che la cifra sia considerevole: il padre è stato Ministro, consigliere dell’Imperatore, ha sposato una donna molto ricca, è rimasto vedovo, ha palazzi, terreni, tesori…

Nel maggio 1963, Michele Antonio rinuncia alla cittadinanza italiana, prende quella etiope, con il nome di Micael Mangascià e parte per Addis Abeba.

I giornali dell’epoca colgono l’occasione per scrivere pezzi di colore, non mancando di ribadire quanto fosse “dorato” il confino degli etiopi a Longobucco: sì, d’accordo, per loro faceva freddo e si ammalavano, ma prendevano mille lire al mese di diaria, la gente era ospitale, le donne ben disposte… cosa vuoi che siano sei anni lontano da casa, senza potersi allontanare da un paese di settemila anime!

A quanto dicono, Michele Antonio non è mai più tornato a Longobucco: e anche qui si favoleggia dei conti che avrebbe lasciato da pagare prima di sparire, del suo assassinio in Etiopia per mano di sicari pagati dai fratellastri, di gozzoviglie esotiche, testamenti annullati, povertà improvvisa, dalle stalle alle stelle alle stalle, e via stereotipando.

Luigi Magni, reduce dal successo di “Nell’anno del Signore”, immaginò anche di girare un film su tutta la storia, per provare a raccontare, attraverso quella, “l’aggressione fascista e le mascalzonate degli italiani in Etiopia”. Alla fine, non se ne fece nulla: e di film italiani che raccontino le “mascalzonate” degli italiani in Africa non se ne girerà manco mezzo, almeno fino a Tempo di uccidere di Giuliano Montaldo, che è del 1989. Non a caso, uno dei film anticolonialisti più famosi e citati, La battaglia d’Algeri, è l’opera di un regista italiano, Gillo Pontecorvo, ma parla dei misfatti coloniali altrui (francesi, nella fattispecie).

***

Concludiamo il post con due segnalazioni.

Sul sito di Internazionale, un articolo di Wu Ming 2 riprende la questione dell’eredità coloniale italiana e rilancia la data di Yekatit 12/19 febbraio come giornata di iniziative, in particolare nei confronti di odonimi, monumenti, lapidi, luoghi. Sappiamo già che la proposta è stata raccolta a Padova, Milano, Palermo, Reggio Emilia, Bologna. A Napoli, l’Università “L’Orientale”, DKnow e il Centro Studi Postcoloniali e di Genere organizzano un incontro on-line, con interventi di Miguel Mellino, Gabriella Ghermandi, Sandro Triulzi, Iain Chambers, Antar Mohamed, Resistenze in Cirenaica, Black Lives Matter Roma e molti altri. Per info e link sulla piattaforma Zoom, cliccate l’immagine qui a fianco.

Tanti e tante stanno partecipando in questi giorni con segnalazioni per la mappa, anche di gruppo, come ha fatto l’Associazione eQual per la topografia di Mantova e provincia.

Continuiamo così. Niente resterà impunito.

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