Yemen, dalla rivoluzione alla guerra nella ricostruzione

Un’intervista di Francesco Cargnelutti alla giornalista Laura Silvia Battaglia, che da anni segue gli eventi che stanno segnando il paese arabo, tra rivoluzione e guerra civile. In seguito potrete leggere le fasi salienti di questa storia recente, aggiungendo un tassello in più a quanto precedentemente raccontato. Come ha scritto Battaglia altrove, “Non chiamatela, retoricamente, la guerra dimenticata. E non identificate lo Yemen con la guerra. Perché lo Yemen è molto di più che un ammasso di macerie causate da un conflitto lungo e sfiancante. Lo Yemen è al centro di una contesa strategica, logistica, economica e culturale da parte di attori locali, regionali e internazionali che non dimenticano affatto la sua esistenza, la sua posizione strategica, il suo carico di idrocarburi poco utilizzati e il numero enorme di giovani uomini, nullatenenti, disposti a tutto pur di sfangare la povertà”.

Come si presentava il regime alla vigilia della rivoluzione del 2011?

Era chiaro dalla lunghezza del presidenza di ‘Ali ‘Abdullah Salih, al potere dal 1978, che il suo regime scricchiolava. Basta tenere a mente alcuni fattori, come lo stato economico compromesso del paese; l’emergere di gruppi separatisti che si erano organizzati dal punto di vista politico, come gli Huthi, formatosi nel corso del ventennio precedente, che probabilmente avevano legami con l’Iran e con Hizbullah in Libano; altro elemento da considerare era l’accresciuta consapevolezza politica del partito Islah, ovvero i Fratelli Musulmani yemeniti, che riusciranno a prevalere nelle proteste scoppiate a gennaio del 2011.

Durante quei primi mesi del 2011 quali attori troviamo nelle piazze?

Tre grandi gruppi. Primo, gli yemeniti, non solo nella capitale Sana’a, che si opponevano alla dittatura di Salih e che chiedevano una maggiore distribuzione della ricchezza. In mezzo a loro anche tanti giovani e donne, stimolati dalle parallele proteste in Tunisia ed Egitto. Secondo, i Fratelli Musulmani ovvero il partito Islah, e terzo, gli Huthi. Questi ultimi due gruppi occupavano posti diversi nelle piazze, ma erano accomunati da un unico obiettivo, ovvero l’allontanamento del presidente Salih. Dalla loro, i Fratelli Musulmani avevano anche il sostegno di media importanti come al-Jazeera. Bisogna ricordarsi, infatti, che la narrazione delle rivolte è un elemento fondamentale nella lotta per il potere.

Qual è stata la risposta del palazzo e del resto della politica formale?

C’è stata una spaccatura all’interno del partito di Salih tra coloro che hanno continuato a sostenere il presidente e chi invece si è allineato con la piazza, soprattutto dopo un’iniziale repressione che è costata la vita a una cinquantina di persone, il 18 marzo. E la stessa frattura si è vista nell’esercito. È anche per questo che è stata una rivoluzione relativamente pacifica. Anche i partiti dell’opposizione si sono accodati alla rivoluzione, per cui è stato facile metterli successivamente al tavolo delle trattative all’interno di una prospettiva di dialogo nazionale. Nessun altro paese della regione – sto pensando a Siria e Libia – è riuscito ad avere un passaggio così poco traumatico.

Tutte le parti si sono riunite al tavolo della Conferenza di dialogo nazionale, tenutasi tra marzo 2013 e gennaio 2014. Come si è sviluppato il processo di dialogo tra i vari attori, politici e non? 

La conferenza di dialogo nazionale è stato un crescendo di mancanza di comprensione reciproca tra le varie parti. La messa in sicurezza di questo processo è avvenuta per mezzo di attori internazionali. Non tanto gli Stati Uniti o le Nazioni Unite, ma l’Unione Europea, che ha giocato un ruolo fondamentale. È l’Unione infatti che ha chiesto di riconoscere la presenza alla conferenza, oltre che delle tribù, anche della società civile, tra cui giovani e donne, e di quelle realtà che non volevano una soluzione nazionale alla crisi, come gli Huthi e i gruppi separatisti.

Bisogna dire, però, che questa inclusività non è stata un elemento favorevole nel lungo periodo. I vari gruppi non hanno avuto un atteggiamento collaborativo. Io ero presente e nell’ultima riunione prima della fine della conferenza, i partecipanti si sono messi le mani addosso. La rottura è avvenuta in particolare su tre punti. Primo, se far rientrare Salih nel paese oppure no. I contrari erano gli Huthi, i separatisti e la società civile. Tutti erano consapevoli che far rientrare un uomo che aveva governato il paese per 33 anni e che aveva le mani in pasta ovunque, in tutti i rapporti commerciali, equivaleva a ristabilire i vecchi privilegi contro cui la popolazione si era mobilitata. Un’altra rottura si è verificata sulla questione del disarmamento delle tribù. Infine, altro nodo controverso era quella della soluzione federale per il nuovo Yemen e l’individuazione dei confini delle sue componenti. Una discussione che chiamava in causa ovviamente l’allocazione delle risorse del paese. Quando il processo di dialogo non ha saputo trovare un accordo su questi tre punti è fallito.

Come si è passati dalla fine del dialogo nazionale alla guerra civile scoppiata il 19 marzo del 2015, che si è presto internazionalizzata?

Facciamo un passo indietro. Le proteste del 2011 avevano costretto Salih a lasciare la presidenza. Nel febbraio del 2012 è stato sostituito alla guida del paese da ‘Abd Rabbih Mansur Hadi, una figura politica poco rilevante che si è dovuta confrontare con un paese in cui l’economia stava crollando e la conflittualità crescente, anche a causa delle parallele difficoltà del dialogo nazionale. Nonostante il processo di dialogo, infatti, gli scontri tra i diversi attori non sono cessati. A settembre del 2014, gli Huthi hanno conquistato la città di Sana’a alleandosi con le forze militari del loro vecchio nemico, l’ex presidente Salih. Ciò ha costretto Hadi a lasciare la capitale per ‘Aden. Si è trattata di una vera e propria debacle politica verso gli yemeniti. Non è passato molto prima che gli Huthi e le forze di Salih arrivassero fino alle porte di ‘Aden, nel marzo del 2015. Per salvarsi, Hadi ha dovuto quindi chiedere aiuto al più forte, l’Arabia Saudita, che è intervenuta nel conflitto il 26 marzo. Così facendo, Hadi ha dato il permesso a forze esterne di intervenire nelle questioni yemenite.Bisogna però ricordare che già prima si parlava di internazionalizzazione a proposito dell’alleanza tra Huthi ed Iran. All’inizio non si capiva bene se le voci in proposito fossero vere. Col senno di poi, bisogna dire che gli Huthi non sarebbero mai riusciti ad arrivare ad ‘Aden senza il supporto e il know-how professionale fornito da un attore nella regione.

Abbiamo visto che l’Arabia Saudita si è schierata al fianco del presidente Hadi contro gli Huthi e le forze di Salih. Sono intervenuti altri attori regionali nel conflitto?

Sì, è intervenuta una coalizione composta anche da Emirati Arabi Uniti e Qatar, che si è subito defilato a causa della crisi con i sauditi. Questi ultimi sono intervenuti per un chiaro interesse ad avere influenza sullo Yemen e a tenere pulito il proprio confine con esso. Gli Emirati sono alleati dei sauditi, ma hanno anche un interesse strategico, ovvero affacciarsi sul golfo di ‘Aden. È per questo che pattugliano le coste, per controllare il porto della città e la costa meridionale, e in particolare la città di Mukalla, dove c’è la più grande centrale elettrica del paese nonché un terminal di esportazione del gas naturale. E se da un lato fanno parte della coalizione che appoggia Hadi, dall’altra finanziano milizie locali, come i separatisti del sud che stanno dando filo da torcere al governo. In più, nel sud del paese gli Emirati gestiscono prigioni segrete, dove vengono trattati qaedisti per conto degli Stati Uniti. Sì, perché nello scenario yemenita un attore da non dimenticare sono i gruppi qaedisti, attivi tra le altre cose nel traffico di armi. Sono probabilmente finanziati da alcune famiglie saudite che hanno interessi diversi da quelli del ramo centrale e che magari non ne condividono la stessa politica pro-americana. Penso sia invece da escludere un coinvolgimento della famiglia reale.

E il Qatar?

Il Qatar era inizialmente intervenuto al fianco di Arabia Saudita ed Emirati, ma dopo alcuni mesi è scoppiata una crisi con i sauditi che l’ha portato a lasciare lo Yemen. Non si è defilato, però, dal punto di vista del quinto potere: il Qatar ha un preciso interesse a veicolare una particolare narrazione del conflitto attraverso al-Jazeera o siti come Middle East Eye. Su questo punto, si incontra con gli interessi iraniani.

Ritorniamo agli attori interni. Gli Huthi si sono quindi alleati con l’ex presidente Salih, e riescono a conquistare Sana’a e ‘Aden. Parallelamente, anche i separatisti del sud combattono il governo di Hadi. Gli altri attori dello scacchiere interno, ovvero il partito Islah e la società civile, prendono parte attiva al conflitto?

Il partito Islah è quello che ha avuto le più grandi perdite sia in termini politici che di vite umane. Quando gli Huthi sono entrati a Sana’a, il loro principale target sono stati proprio gli esponenti di questo partito. Lo stesso motivo li ha spinti ad attaccare la città di Ta’iz, roccaforte dell’Islah. Gli attacchi nei loro confronti, hanno spinto molti esponenti del partito a lasciare il paese. In pochi sono rimasti in Yemen e nonostante ciò fanno parte del governo riconosciuto dalla comunità internazionale. Il paradosso è che molti esponenti islahi del governo sono all’estero, quindi il dialogo internazionale verso il governo avviene con rappresentanti dell’Islah che si trovano a Ginevra. In realtà, il governo centrale in Yemen non è più rappresentato da nessuno ed ormai ha poco peso politico.

La posizione dell’Islah, che inizialmente era difeso dalle forze saudite, si è ulteriormente complicata nel corso del conflitto. Gli esponenti del partito che vivevano all’estero hanno infatti iniziato a cercare di portare l’attenzione internazionale verso la guerra, criticando i sauditi per i loro bombardamenti. Ciò li ha avvicinati alla Turchia e, paradossalmente, alla posizione degli Huthi, allontanandoli dall’Arabia Saudita. È per questo che alla fine i membri dell’Islah sono i più cacciati: i sauditi non li vogliono, come nemmeno gli Huthi, e non sono nemmeno amati da gruppi armati minori per il fatto che molti dell’Islah si trovano all’estero in paesi ricchi.

E la società civile che era scesa in piazza nel 2011 e che aveva partecipato al processo di dialogo nazionale?

Al 90% degli yemeniti interessa solamente che tutto finisca. Ormai non c’è nessuno che creda alla causa di una parte o dell’altra. Quanto alla società civile, è fuggita. Artisti, scrittori, registi, non sono più in Yemen. Gli attivisti e le attiviste sono partiti con visti turistici per l’Egitto. Molti stavano fino a poco tempo fa ad ‘Aden, ma l’hanno abbandonata. Quei pochi che sono rimasti, si trovano a Sana’a, dove cercano di agire in un ambiente molto sfavorevole. E la situazione non migliorerà. Più il conflitto si prolunga, più la società civile sarà debole e non troverà il coraggio di tirar fuori la voce.

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